Diciamocela: tutti quanti, almeno una volta nella nostra vita, abbiamo desiderato un picco di viralità per i nostri contenuti social. Ancora di più se questi contenuti sono stati creati per pagine aziendali o per il personal branding.
Una vera chimera, rara come rari possono essere due doppi sei consecutivi ai dadi, un terno al lotto o l’essere colpiti da un meteorite (checché ne voglia dire il Buondì Motta). Unicorni, insomma.
Il contenuto virale è la pietra filosofale di ogni capo d’azienda, del più pervicace dei marketer, del professionista che vorrebbe diventare popolare al costo del video perfetto.
Capisco quanto la tentazione sia forte. E che voler essere sulle bacheche di tutti sembra il sogno di una vita: il marchio che gira, la fama e i clienti che arrivano a frotte.
Ma poi ci si sveglia e ci si rende conto che la realtà è ben diversa.
C’è qualcosa che in questo ragionamento proprio non funziona e te lo spiego in tre semplici punti.
Vuoi un contenuto virale ma non stai pensando al tuo target
Prova a fare un attimo mente locale sui contenuti cosiddetti virali che girano sulla tua bacheca di Facebook e dimmi quanti di questi sono collegati a realtà commerciali, a prodotti, a negozi, a professionisti consulenti.
Te lo dico io: pochissimi.
La gran parte dei contenuti virali che vedi girare non hanno nulla a che vedere con il tuo target.
Il tizio che dice durante il Miracolo di San Gennaro “Sono Giapponese”, video di gente che si fa male in palestra sul tapis roulant o scoiattoli che ti guardano di sottecchi. Che ci azzeccano questi contenuti con il business? Nulla. La gente li condivide perché sono divertenti, curiosi, strani.
Anche se riuscissi a filmare il tuo gatto mentre suona al piano un pezzo di Rachmaninoff, e diventasse virale, cosa pensi ne verrebbe per il tuo portafogli? Se, giusto per fare un esempio, vendi articoli per il giardinaggio in che modo dovrebbe aiutarti quel gatto che impazza sulle bacheche di persone a cui di comprare un decespugliatore non frega praticamente nulla?
Certo potresti diventare ricco, diventando il tour manager del tuo gatto, ma questa è un’altra storia.
Non perdere di vista il tuo target quando pensi a un contenuto: potrà interessarlo? Sarà disposto a condividerlo? Condividendolo avrai un’esposizione del tuo marchio, dei tuoi prodotti, dei tuoi servizi a gente interessata. Se la risposta è sì, è un buon punto di partenza.
Stai definendo virale il tuo contenuto prima che esso sia virale
Una pessima abitudine è quella di definire virale un contenuto prima che esso davvero lo sia.
Per parafrasare un noto aforisma:
l’attesa che un contenuto diventi virale, non è essa stessa virale.
Non esiste la viralità a priori: non esiste e non la puoi prevedere nemmeno se di secondo nome ti chiami Branko, Fox o Brezsny (se quest’ultimo riesci a pronunciarlo correttamente, al più posso omaggiarti con una menzione d’onore).
Puoi davvero mettercela tutta, ma non saprai la sua reale carica di viralità fin quando il contenuto non sarà online.
E spesso anche il contenuto migliore ha bisogno di una piccola miccia, che sia un influencer che lo rilanci o un po’ di budget da spendere in ads.
Ma fammi e fatti una cortesia: non definirlo virale prima che lo diventi davvero!
Sacrifichi il buon contenuto al contenuto virale
Creare un contenuto “virale” può essere un’operazione estenuante. Che sottrae forze ed energie, ma anche budget a sfavore di quel tipo di contenuto che invece è spesso più importante: un contenuto che sia utile, accattivante e di interesse per la tua audience.
Se sei un’agenzia di viaggio potrai descrivere le 3 mete che i tuoi clienti non dovranno perdersi se è prevista una partenza fuori stagione. Se sei un dentista potrai dare consigli su come mantenere un’igiene dentale perfetta. O come trovare lo spazzolino elettrico adeguato.
Per una volta puoi dunque evitare di pubblicare video di bebè che ridono come forsennati o di balli di gruppi demenziali.
Tool come Spidwit ti rendono la vita più facile e ti consentono di trovare notizie di settore, foto e modelli grafici che possono essere d’interesse per i tuoi fan, quotidianamente.
Ma se proprio vuoi creare contenuti virali dai ascolto ai migliori
Per cominciare puoi, ad esempio, leggere il libro di Jonah Berger “Contagious”, il cui sottotitolo è l’attraente “come costruire il passaparola nell’era digitale”.
Secondo Jonah Berger, professore associato di marketing alla Wharton School presso l’Università della Pennsylvania e massimo esperto sul tema della viralità, i punti da seguire possono essere sintetizzati nel cosiddetto metodo STEPPS.
S sta per Social Currency: siamo portati a condividere tutto ciò che ci fa sentire bravi, intelligenti, divertenti. È la nostra “moneta sociale” e noi siamo ciò che condividiamo.
T sta per Triggers: la creazione di contenuti “memorabili” favorisce il ricordo di un servizio o prodotto; un trigger è un’idea facile che riusciamo ad agganciare al nostro prodotto.
E sta per Emotion: Contenuti ad alto carico emozionale, che ispirano, che creano sensazioni di malinconia, rabbia, gioia, hanno un potenziale maggiore di condivisione.
P sta per Public: con il motto di “scimmia vede, scimmia copia” questo punto si basa sulla riprova sociale. Ad esempio, se vediamo un ristorante pieno di gente all’esterno, saremo portati a pensare che è un buon ristorante.
P sta per Practical Value: le informazioni maggiormente condivisibili sono quelle che hanno un maggiore valore pratico e d’utilità. E poi un buon titolo completa il tutto. Uno degli articoli di maggior successo del blog di Spidwit è ad esempio quello che parla di trucchi per aumentare la visibilità su Facebook! Puoi immaginare il perché :)
S sta per Stories: il potere dello storytelling. Il nostro cervello ha un’insana passione nel connettere eventi e crearne una narrazione. Le storie entrano nelle nostre teste e ci tengono sul pezzo molto più che semplici e sterili descrizioni di prodotto.
Qual è la tua esperienza con i contenuti virali? Raccontala nei commenti!
Autore: Antonio Parlato
Pedigree da ingegnere, propone variazioni sul tema di web writing, copywriting, content marketing, dissertazioni tecnologiche e tecnoillogiche.